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Morta dopo aborto, ispettori: "Non fu obiezione di coscienza"

CATANIA. Nell'assistenza a Valentina Milluzzo, la 34enne morta all'ospedale Cannizzaro di Catania il 16 ottobre scorso dopo l'aborto di due gemelli, «non si evidenziano elementi correlabili all'obiezione di coscienza». Lo affermano gli ispettori del ministero della Sanità nella loro relazione al ministro Lorenzin.

Un «evento abortivo iniziato spontaneamente, inarrestabile, trattato in regime d'emergenza» in una «paziente con trattamento adeguato per le condizioni di rischio dal momento del ricovero», in nessun modo «correlabile all'argomento 'obiezione di coscienza». Dal lavoro della task force, che entro trenta giorni redigerà un documento completo, non emergono irregolarità nel trattamento della paziente, dal ricovero alla tragica emergenza. E meno che mai ci sarebbe stato un rifiuto di un medico di intervenire perchè obiettore di coscienza, come segnalato nella denuncia presentata dai familiari della donna che ha fatto scattare l'inchiesta della Procura di Catania che, come atto dovuto, ha indagato 12 medici e disposto il conferimento a un collegio di periti dell'autopsia che si terrà mercoledì prossimo nell'obitorio dell'ospedale Cannizzaro.

I familiari di Valentina Milluzzo ribadiscono la loro ricostruzione e il documento degli ispettori, ovviamente, non incide sul fascicolo attivato dal procuratore Carmelo Zuccaro che guarda a eventuali irregolarità penali.  Secondo la task force, la paziente ricoverata «con diagnosi di minaccia d'aborto in gravida gemellare (gravidanza indotta con procreazione medicalmente assistita, presso altro Centro)» era «in trattamento adeguato per le condizioni di rischio dal momento del ricovero» e le «prime valutazioni cliniche e il monitoraggio dei parametri vitali non evidenziano alcun dato anomalo». Nella relazione, redatta dal dottore Francesco Enrichens, si ricostruisce il ricovero della paziente, dal 29 settembre scorso, per «minaccia d'aborto in gravida gemellare».

E si rileva che «la paziente era in trattamento adeguato per le condizioni di rischio dal momento del ricovero» e che «i parenti sono stati sempre informati e sostenuti dall'intera equipe degli ostetrici e degli anestesisti». La crisi scatta a mezzogiorno circa del 15 ottobre, con «picco febbrile a 39 gradi, con somministrazione di antipiretici e ripresa immediata di terapia con antibiotici». Esami ematici evidenziano «una situazione compatibile con un quadro settico e una coagulopatia da consumo, con progressiva anemizzazione e progressivo calo dei valori pressori». E per questo sono allertati gli anestesisti, al fine, scrivono gli ispettori, di «un approccio coerente con le condizioni donna, che vengono comunicate ai parenti presenti con tempestività».

Alle 23.20, in sala parto, la paziente espelle il primo feto morto. Alle 24 inizia l'infusione con ossitocina, in «coerenza con la necessità clinica di indurre l'espulsione del secondo feto, che avviene all'1.40 del 16 ottobre». Nell'assistenza è «coinvolto un secondo anestesista» e sono «somministrati farmaci appropriati». Per gli ispettori «alle 13.45, nonostante il massimo livello assistenziale ed un transitorio miglioramento delle condizioni generali» alle 13.45 si registra il decesso della donna. Probabilmente, ipotizza la relazione, per «un quadro septico e una coagulazione da consumo». Diagnosi che dovrà essere confermata dall'autopsia disposta dalla Procura, che prosegue con l'inchiesta.

 

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