CATANIA. Sono passati quasi cinque anni dalla morte di Salvatore Vadalà, ne tengono vivo il ricordo nella dura battaglia per conoscere la verità.
È il 27 novembre 2008, quando a Fiumefreddo, intorno alle 18,15, il ventunenne scompare nel nulla per poi essere rinvenuto cadavere l'8 dicembre successivo, sotterrato in una campagna di Mascali, ucciso con dei colpi di arma da fuoco. Da quel giorno la famiglia Vadalà non è stata più la stessa. Appelli in tv, sui giornali e perfino due lettere al Capo dello Stato per avere risposte sulla morte assurda di un incensurato e per assegnare l'assassino alla giustizia.
Nell'ultima lettera al Presidente della Repubblica sfogano tutta la loro indignazione e vergogna perché si ritengono offesi nella dignità di essere italiani. «Con costante determinazione ci siamo rivolti all'autorità giudiziaria competente, manifestando in tutti i modi possibili il desiderio di giustizia. Ma sembra che, oltre alle solite diplomatiche risposte, nessuno si interessi al caso. È ormai indubbio che dell'omicidio di mio figlio a nessuno importi scoprire gli autori».
Quindi un comprensibile sfogo dovuto dal profondo dolore. «Forse addirittura in Procura pesa pure sapere che noi familiari ancora non ci rassegniamo e desideriamo giustizia. Il silenzio delle autorità preposte alle indagini umilia la nostra intelligenza, ci sentiamo trattati come cittadini di seconda classe. Siamo poveri, agricoltori, non possiamo mantenerci avvocati di grosso livello e quindi siamo dimenticati da tutti ma non dal nostro Presidente, non lo accettiamo».
E infine: «Ci chiediamo: ma se avessero ucciso un suo figlio avrebbe ricevuto lo stesso trattamento? Un grazie sincero ai miltiari dell’Arma della Stazione di Fiumefreddo, gli unici che hanno condotto indagini sul caso».