CATANIA. La polizia ha sgominato un'organizzazione che gestiva una rete di spacciatori nel popoloso rione San Cristoforo di Catania. La squadra mobile ha eseguito un'ordinanza per 48 indagati che, secondo le indagini, facevano parte di un gruppo che aveva un volume d'affari di 4 milioni euro l'anno. Lo spaccio avveniva nella zona di via Colomba, che ha dato il nome all'inchiesta. Durante le indagini sono emersi contatti con il clan Cappello-Cursoti, ma non è contestata l'aggravante mafiosa.
Un'organizzazione militare e capillare della via trasformata in un "drive store" della droga: lunghe colonne di auto in fila che prima pagano la "dose" al cassiere e poi, alcune decine di metri dopo, ricevano la marijuana dallo spacciatore. Un gruppo strutturato, sostiene la Procura, capace di incassare dai 15 ai 20mila euro al giro, con un fatturato annuo che si aggirava intorno ai 4 milioni di euro. Ai vertici dell'organizzazione la polizia indica i fratelli Giovanni e Carmelo Crisafulli, di 37 e 43 anni, figli di Francesco, 53 anni, ritenuto elemento di spicco del clan Cappello-Bonaccorsi, dove è passato dopo avere lasciato la cosca Santapaola in seguito l'uccisione da parte di Cosa nostra del genero, Nicola Sedici, che sta scontando una condanna a 30 anni di reclusione per omicidio. Per i due fratelli, un loro zio, Filippo Crisafulli, di 52 anni, e Massimo Vinciguerra, di 36 anni, la procura aveva chiesto l'aggravante mafiosa, ma il Gip Daniele Monaco Crea ha ritenuto non dimostrato il reato.
Le immagini di telecamere piazzate dalla squadra mobile hanno permesso di ricostruiscono la dinamica dello spaccio, che era protetto da una doppia rete di vedette, fisse e mobili, che avevano come segnale d'allarme, lanciato a voce, "levati". La marijuana era divisa in dosi contenute in buste nascoste in auto appositamente rubate. Uno scooter la prelevava e la portava agli spacciatori al dettaglio che avevano il controllo assoluto della via Colombo, che ha dato il nome all'operazione. Le auto in fila erano tante da bloccare il traffico: in un'intercettazione ambientale agli atti dell'inchiesta uno degli indagati sollecita gli altri a "velocizzare la vendita", perchè «ci sono 37 macchine...».
Tra gli indagati anche due donne: una di loro portava il figlio, 31enne, a spacciare, come se lo accompagnasse al lavoro. Il gruppo aveva una cassa comune per pagare gli stipendi e sostenere le famiglie dei detenuti. Durante alcuni arresti in flagranza di reato i capi intervenivano per placare i loro spacciatori, per evitare loro maggiori problemi giudiziari. Le indagini della squadra mobile della Questura sono state coordinate dal procuratore Giovanni Salvi, dall'aggiunto Amedeo Bertone e dai sostituti Pasquale Pacifico e Susanna Musella.
Caricamento commenti
Commenta la notizia