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Sprechi nelle partecipate al Comune di Catania, condanna da un milione

CATANIA. Sprechi nella società partecipate del Comune di Catania con un danno erariale da un milione di euro. La sezione giurisdizionale d'appello della Corte dei conti ribalta la sentenza con la quale in primo grado erano stati assolti 7 ex amministratori e riconosce la responsabilità del defunto sindaco Umberto Scapagnini e dell'avvocato Mario Arena, rappresentante dell'assemblea dei soci di InvestiaCatania, condannando quest'ultimo a versare 292 mila euro. Accogliendo il ricorso del procuratore generale, con la sentenza 297/A/2014 i giudici contabili certificano un danno erariale di 583 mila euro per compensi e nomine in esubero al consiglio di amministrazione, diviso in parti uguali fra i due ma, prendendo atto del decesso di Scapagnini e mancando i presupposti per procedere nei confronti degli eredi, ne imputano solo metà ad Arena. Dall'appello erano stati esclusi, invece, altri 584 mila euro di danni erariali provocati dalla gestione della Asectrade.
I giudici contabili ricordano che InvestiaCatania, a fronte di un organico di quattro persone, aveva un consiglio di amministrazione formato da sette persone i cui compensi erano lievitati negli anni. Si era partiti da 45 milioni di lire annui per il presidente e 24 milioni di lire per i consiglieri, tra il 2001 e il 2004, ai 100 mila euro per il presidente e 30 mila per i consiglieri deliberati dall'assemblea dei soci del 19 ottobre 2004 rappresentata da Arena. Secondo il collegio giudicante l'avvocato del Comune "nonostante il pessimo andamento della società, non ritenne di dovere operare alcuna riduzione del numero dei componenti del consiglio di amministrazione - che risultava composta da un numero di soggetti perfino superiore a quello di tutti i dipendenti della società - ma giunse, persino, a determinare un aumento del tutto sproporzionato ed ingiustificato dei loto compensi".
"Può serenamente affermarsi - proseguono i giudici - che nessun imprenditore privato sarebbe messo mano con sollecitudine alla pletoricità del consiglio di amministrazione, evitando del tutto un aumento di compensi ad un organo che non aveva certo brillato per efficienza ed efficacia dell'azione gestoria".
Sull'irragionevolezza della lievitazione dei compensi agli amministratori, il collegio giudicante parla senza mezzi termini di "totale assenza di ogni solida motivazione" che "colora di arbitrarietà una simile scelta che appare, anzi, palesemente in contrasto con le risultanze economico-gestionali della società, sino a quel momento esaminate. Non si è mai visto, infatti, che in una società caratterizzata da costanti perdite e scarsa efficienza aziendale si introduca una misura premiale a favore degli amministratori, il cui unico risultato non poteva che essere quella di aggravare la già disastrata condizione societaria".
Mentre il mantenimento di un consiglio "del tutto spropositato rispetto alla struttura amministrativa, peraltro, in una situazione economico/patrimoniale di estrema criticità, è condizione di tale palese abnormità ed irragionevolezza, che non può non ritenersi doveroso un intervento di riduzione dei componenti da parte dell'azionista e la sua mancata attivazione come gravissimo ed ingiustificato comportamento posto in violazione degli interessi pubblici tutelati, caratterizzato, quindi, quanto meno da colpa grave".

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