«Non ho dubbi sulla scelta fatta, anzi. Tornerei in Africa». Fabrizio è rinato. Un mese dopo il ricovero sta meglio, molto meglio. Quel nemico invisibile chiamato Ebola, che ha già fatto nel mondo 7 mila vittime, è stato sconfitto. Per Fabrizio Pulvirenti, 50 anni, medico catanese specializzato in malattie infettive e al lavoro all’ospedale Umberto I di Enna, è iniziata una seconda vita. Le sue condizioni, solo poche settimane fa, si erano aggravate. Poi la svolta. Il volontario di Emergency non ha mai perso l’entusiasmo e l’altruismo che l’hanno spinto in Sierra Leone, nel cuore dell’Africa, ad aiutare gli ultimi. «L’uguaglianza degli uomini si dovrebbe misurare anche dalle cure ricevute», dice al termine del calvario. «A ogni male ci sono due rimedi, il tempo e il silenzio», scrive dall’Istituto Spallanzani di Roma. Dopo avere pubblicato sul web una lettera aperta per annunciare il pericolo scampato, adesso torna alla luce e ripercorre paure, sogni, speranze della sua angosciante degenza. «Tutto è iniziato col vomito, poi la febbre alta. Eseguiti gli accertamenti, l’esito è stato orribile. Ma non ho perso la speranza». La cura con i farmaci sperimentali, l’estremo malessere, la nausea, il vomito: per Pulvirenti è stata una durissima battaglia. Dottore Pulvirenti, la domanda che tutti si attendono: come si sente oggi? «Ormai mi sono pressoché del tutto ripreso e spero di rientrare prima possibile al mio lavoro». In questo mese di ricovero ha perso conoscenza, le sue condizioni si sono aggravate, poi si è ripreso. Ha avuto paura? Ci sono stati momenti di sconforto? «Di sconforto no, non ne ricordo. La paura credo sia normale quando si è posti di fronte alla propria morte». Lei è andato in Africa pur consapevole del rischio contagio. È una scelta che rifarebbe? Ha qualche rimpianto? «Non ho rimpianti. Tornerei in Africa, certamente, e non ho dubbi sulla scelta fatta». Ma cosa l'ha spinta a fare il volontario in Sierra Leone, a rischiare la propria vita per curare altra gente in maniera del tutto volontaria? «Credo che ci siano alcune differenze tra Nord e Sud del mondo che possono essere accettate: piccole differenze nei salari, negli stili di vita, nella politica interna, nel culto, ecc... Credo però che ce ne siano altre inaccettabili e tra queste le differenze nella cura delle malattie. L’uguaglianza degli uomini si dovrebbe misurare anche da questo». Lei non ama essere definito un eroe, ma è divenuto in Italia il simbolo della lotta contro l’Ebola. Alla luce della sua esperienza, cosa si sente di consigliare ai governi per la cura contro questo virus? «Non ho né l’autorità né i titoli per poter dare consigli a tali livelli. L’unico appello che mi sento di fare alle istituzioni è di fare presto a regolamentare i permessi per gli operatori sanitari che vogliono andare in Africa perché ciò che fa la differenza è la possibilità di fornire assistenza ai malati. Ma non credo di essere un eroe, ripeto. Sono solo un soldato che si è ferito nella lotta contro un nemico spietato». Quale ricordo porterà con sé della sua esperienza in Sierra Leone? «Della missione in Africa ricordo la gioia delle persone guarite da Ebola nel momento in cui veniva loro comunicato l’esito della procedura di controllo. Ma ricordo anche i tanti morti, alcuni in modo tragico». Tanta gente, commentando gli articoli sul suo stato di salute, riteneva più opportuno non farla rientrare in Italia per paura del contagio. Questo l’ha ferita? «La paura del contagio è legittima. Non mi hanno ferito i vari commenti che mi sono giunti, no, comprendo». In questa sua avventura c’è qualcuno che si sente di ringraziare particolarmente? «La presenza e il supporto dei familiari sono scontati. Ritengo ci siano state tante persone vicine a me: con l’intero team dello Spallanzani, fin dai primi momenti, si è stabilito un rapporto che non temo di esagerare a definire affettuoso. L’isolamento ha ragioni che comprendo e condivido. Non è piacevole, ma fa parte delle regole». Qual é la prima cosa che farà quando sarà completamente dimesso? «Francamente non so ancora cosa farò nel momento in cui rientrerò al lavoro, ma non penso che ci saranno elementi diversi da ciò che facevo prima. Io amo il mio lavoro e, certamente, mi manca molto».