CATANIA. Minacce scritte sui muri, con il sangue di maiali rubati nelle aziende delle vittime. Imprenditori agricoli picchiati in piazza: «A uno di loro fu quasi staccato a morsi un orecchio». Fiori lasciati sotto casa, come avvertimento di morte. I «santapaoliani» dei Nebrodi, che controllano da Bronte a Cesarò passando per Maniace, erano pronti a tutto – hanno fatto di tutto … – pur di accaparrarsi 130 ettari di terreno tra le province di Catania e Messina. «Puntavano a un doppio guadagno, eliminare la concorrenza e incassare i fondi comunitari», ha affermato ieri nel capoluogo etneo il comandante provinciale dell’Arma peloritana, il colonnello Iacopo Mannucci Benincasa, nel corso di una conferenza stampa con il capo della Procura distrettuale di Catania, Carmelo Zuccaro, sulla convalida dei nove fermi eseguiti martedì dai militari catanesi del Ros e da quelli della Compagnia di Santo Stefano Camastra. Ora, quei provvedimenti per estorsione e mafia sono stati tramutati in arresti dal giudice delle indagini preliminari. Gli indagati. Destinatari dell’ordinanza «Nebrodi» sono Giovanni Pruiti, 41 anni, proprietario terriero indicato come capo-filiale del clan Santapaola a Cesarò, il presunto boss brontese Salvatore “Turi” Catania, 55 anni, Roberto Calanni, 37, Giuseppe Corsaro, 33, Antonino Galati Giordano, 34, Luigi Galati Giordano, 32, Salvo Germanà, 41, Carmelo Lupica Cristo, 62, e Carmelo Triscari Giacucco, 44. Si trovano tutti in carcere. Stando alle accuse, «il sodalizio era riuscito a ostacolare ogni libera iniziativa agricola condizionando il mercato con l’ordinario uso di danneggiamenti, furti, uccisione di animali, estorsioni”. Bersaglio dell’organizzazione, tre imprenditori che avevano già versato una caparra di 250 mila euro sui 440 mila pattuiti per acquistare 130 ettari di pascoli e bosco: “Sono stati vittime di avvertimenti pesantissimi e agguati, ma il terrore era tale – ha sottolineato il sostituto procuratore Fabio Saponara in conferenza stampa – che hanno negato persino l’evidenza dei fatti quando li abbiamo ascoltati”. “Sui Nebrodi c'è una cappa che pesa sulla libertà delle persone e va spezzata”, ha aggiunto il procuratore Zuccaro. I fermi erano stati eseguiti in tutta fretta martedì, senza aspettare l’ordine di custodia dal gip, proprio nel timore di nuovi episodi di violenza. Il «protocollo Antoci». Da quegli appezzamenti il clan sperava di incassare ogni anno fondi comunitari per almeno 50 mila euro. Indispensabile, però, mettere le mani su proprietà di privati. In questo modo, difatti, sarebbero state “dribblate” le certificazioni antimafia che sono invece richieste a chi ottiene terreni in comodato da enti pubblici e punta a ottenere finanziamenti europei. Questo obbligo è previsto nel protocollo di legalità firmato il 18 marzo del 2015 dagli amministratori locali e dal presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, che era scampato il 18 maggio dello scorso anno a un attentato. Giovedì, il presidente del Parco sarà alla Camera per presentare la legge che estende il “protocollo Antoci” in tutta Italia e lo fa diventare norma dello Stato. L’inchiesta. Magistrati e investigatori hanno puntualizzato ieri che l’operazione «Nebrodi» nasce proprio dalle indagini avviate dopo l’agguato ai danni di Giuseppe Antoci. Il protocollo, infatti, aveva costretto anche le cosche di Bronte, Maniace e Randazzo nel Catanese a correre ai ripari per difendere i propri appetiti sui fondi comunitari erogati dall’agenzia Agea. La Procura etnea aveva avviato indagini sullo “zio Turi” Catania, ma la svolta era arrivata dopo l’intimidazione ai danni di un allevatore di Cesarò: «Da quell’atto plateale e feroce siamo risaliti a una più ampia attività estorsiva nei confronti di tre imprenditori perché si ritirassero da trattative che, tra l’altro, avevano fatto lievitare i prezzi di acquisto dei terreni nella zona». Un doppio guadagno, appunto.