Niente attenuanti per il padre 'sceriffo' che inveisce e picchia i compagni di squadra del figlio coinvolto in una lite tra ragazzini durante una partita di calcio. Per la Cassazione si tratta di un comportamento «biasimevole» che sbarra la strada alla concessione delle circostanze attenuanti per il genitore che si lascia andare a simili intemperanze, anche se si tratta di una persona incensurata e socialmente ben inserita. Così la Suprema Corte ha confermato la condanna penale a 700 euro di multa per Francesco T., un padre siciliano di 51 anni, originario di Mascalucia che dopo una discussione animata tra suo figlio e un altro calciatore 'in erbà era entrato in campo prendendosela con tre ragazzini «che venivano strattonati, presi per il collo e sbattuti tra loro con le teste, in un caso anche presi a calci». Agendo con questa violenza, l’uomo voleva farsi dire dai tre malcapitati minorenni il nome del ragazzino con il quale il figlio era entrato in contrasto. Ora Francesco T. dovrà anche risarcire le tre vittime malmenate i cui genitori si sono costituiti parte civile nel processo per lesioni svoltosi in primo grado davanti al Giudice di Pace di Lentini, e in appello, nel 2016, innanzi al Tribunale di Siracusa. Senza successo, il legale del padre 'scalmanato' ha detto che si è trattato di un caso di legittima difesa in quanto il genitore avrebbe agito per tutelare il figlio. Gli 'ermellinì però hanno replicato che «non vi era alcuna situazione di pericolo attuale per il figlio che si era già spontaneamente allontanato» dalla lite. Piuttosto - ha osservato la Cassazione nel verdetto 26393 depositato il 14 giugno - questo comportamento da parte dell’adulto è stato improntato a «ritorsione o risentimento» verso degli adolescenti. Ad avviso dei supremi giudici, la reazione «si è rivelata macroscopicamente eccessiva ed inadeguata» rispetto a un episodio banale e non allarmante. Secondo gli 'ermellini', correttamente i giudici di merito hanno negato le attenuanti generiche «in considerazione della gravità dei fatti, ritenuta un elemento di preponderante rilievo rispetto allo stato di incensuratezza dell’imputato, considerato, invece, non sufficiente ai fini della concessione» del beneficio. Anche la Procura della Suprema Corte, rappresentata dal Pg Tomaso Epidendio, aveva chiesto il rigetto del ricorso di Francesco T., come poi deciso dalla Quinta sezione penale al termine dell’udienza svoltasi lo scorso quattro aprile e presieduta da Gerardo Sabeone. (ANSA)