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La modernità di Giovanni Verga a 100 anni dalla morte

Barche di pescatori ad Aci Trezza, il luogo che ha ispirato I Malavoglia

Sono i vinti nella lotta quotidiana per la vita i personaggi che più hanno attirato lo sguardo verista, pietoso ma sconsolato, pur modernamente fiducioso nel valore della sconfitta, di Giovanni Verga, di cui si celebrano i 100 anni dalla morte, avvenuta il 27 gennaio 1922 a 81 anni a Catania, dove era nato il 2 settembre 1840.

Per l’occasione, grazie alla casa editrice Interlinea e alla Fondazione Verga, con il sostegno del ministero della Cultura, escono nuovi titoli in volume e in digitale dell’Edizione Nazionale delle sue opere con appendici ricche di notizie, documenti, varianti e indici, mentre si annuncia un progetto sull'epistolario. A Catania si lavora alla messa in scena di suoi testi e a un nuovo allestimento dell’opera «Cavalleria rusticana» di Mascagni nata da un suo racconto.

Dopo alcuni romanzi giovanili di ispirazione patriottica risorgimentale, come «I carbonari della montagna», e poi altri tardoromantici con protagonisti e passioni alto borghesi tra il 1866 e il 1875, da «Una peccatrice» e «Storia di una capinera» a «Tigre reale», Verga durante i lunghi soggiorni a Firenze e Milano matura nelle frequentazioni dell’ambiente letterario e la scoperta dei naturalisti francesi, da Balzac a Zola, una scrittura legata al suo mondo più intimo e alla sua terra, a certa consapevolezza dell’arretratezza e dei problemi del sud nell’Italia unita.

Nasceranno allora i due romanzi importanti, «I Malavoglia» del 1881 e «Mastro don Gesualdo» del 1889, il cui primo segnale è nel 1874 la novella «Nedda», una povera raccoglitrice di olive che col compagno ha una vita di stenti e, quando questi muore per un incidente, si ritrova sola e povera tanto che la loro bambina muore praticamente di fame. Quello dello scrittore è un tentativo di cogliere l'essenza elementare, primitiva e naturale di una realtà non condizionata dai rapporti fatti di convenienze e apparenze.

La novità è nell’oggettività della narrazione che pare vivere dei personaggi e della loro esistenza, come se il narratore si fosse fatto da parte annullandosi davanti alle sue creature. Il tutto reso con un linguaggio scabro e spoglio, ritmato con una cadenza da parlata locale, ma non dialettale, in cui si evidenziasse l'eloquenza elementare e sentenziosa del parlato come specchio della verità del vissuto.

Verga non vede speranza in una situazione di sopravvivenza estremamente dura e in una società agricola o marinara, piegata dalle impreviste variazioni stagionali e meteorologiche, se non nella perseveranza e nel non piegarsi della brava gente. Nel suo capolavoro, la famiglia di pescatori di padron 'Ntoni e di suo figlio Bastianazzo ad Aci Trezza detta «I Malavoglia» possiede solo una barca, che naufragherà con tutto il suo nome simbolico «Provvidenza», e una casa, che andrà venduta per pagare i debiti derivati dalla disgrazia e dalla perdita del prezioso carico di lupini. Con la morte in guerra del primo figlio di Bastianazzo e di sua moglie per colera, la rovina è generale, con un altro figlio che finisce in galera, una figlia che scappa per le voci malevole su di lei e diventerà una prostituta, l'altra che vedrà andare a monte le proprie nozze. Eppure c'è chi resiste, il più giovane dei cinque fratelli resterà proseguendo l’attività del nonno e con la volontà di ricomprare la casa del nespolo.

Questo romanzo, molto modernamente, non si fissa su un personaggio centrale, ma insegue un insieme di situazioni, raccontando una difficile situazione umana dai contorni sfuggenti e imprevisti, aperta, centrifuga e dinamica. Il successivo, secondo dei cinque romanzi progettati a comporre un ciclo detto dei «Vinti», di cui tre mai scritti, «Mastro don Gesualdo» torna sin dal titolo a un biografismo più tradizionale nel segno impietoso di un amaro tentativo di ascesa sociale. Protagonista è Gesualdo, operaio che a forza di sacrifici diventa benestante e don, tanto da riuscire a sposare una nobile di famiglia spiantata, che lo tradisce e non lo farà mai entrare nel suo mondo.

Come il Mazzarò della novella «La roba», anche se meno paranoicamente, don Gesualdo ha puntato in modo modernamente alienante sui beni e finisce, scontrandosi con l'inumanità delle classi sociali più alte, sul letto di morte, abbandonato da tutti e irriso dai servitori. Al suo periodo migliore risalgono anche due ricche raccolte di racconti, ancora sorprendenti per la varietà e ricchezza emblematica dei personaggi, «Vita dei campi» e «Novelle rusticane», alcune da lui tradotte per il teatro, specialmente le fortunate «Cavalleria rusticana» e «La lupa», forte personaggio con cui misurarsi per molte grandi attrici, mentre «Dal tuo al mio», nato dramma e diventato nel 1906 il suo ultimo romanzo, racconta dei conflitti, di sentimenti e denaro, tra la famiglia di un barone, proprietario di una zolfatara, e i lavoratori sfruttati di questa, che alla fine si ribelleranno. Negli ultimi quindici anni fino al 1922, anno della scomparsa, Verga si ritirò nella sua Catania, scrivendo molto poco e senza pubblicare più nulla, persa anche la carica ideale di un tempo, così che, alla viglia della prima guerra mondiale, prese posizione a fianco degli interventisti, tra cui D’Annunzio di cui apprezzava l’azione politica, e, nel dopoguerra, dimostrò simpatia verso la figura di Mussolini e il fascismo nascente.

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