«Il mio grado non è Tenente, ma Tenente Colonnello. Per carità, non mi offendo se sbagliano, ma è giusto essere precisi. Poi di solito un Tenente ha vent’anni, io ne ho 40. E non sono di Paternò, o meglio, sono nato lì, ma cresciuto a Catania. E per favore, diamoci del tu». La linea è disturbata, c’è una forte eco, alcune parole si perdono nell’etere, le altre arrivano lente, sfumate, come se galleggiassero sulla risacca di un’onda. Certo, nulla a che vedere con il ritardo audio tra la Terra e lo spazio, ma ci vuol comunque pazienza.
Per fortuna, chi risponde al telefono ne ha da vendere, e dà subito prova di possedere un’altra dote: l’umiltà, la virtù dei grandi. Difatti, Luca Parmitano è persona speciale: astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), primo italiano a compiere un’attività “extraveicolare” passeggiando all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale (Iss), ma anche pilota sperimentatore collaudatore dell'Aeronautica Militare, insignito di medaglia d’argento al Valore Aeronautico.
In questi giorni è impegnato in un fitto tour di conferenze europee, lontano da Houston, dove normalmente risiede con la famiglia, ma trova il tempo di ascoltarci mentre è in viaggio su un treno. Domani Parmitano sarà all’università di Palermo per un incontro su «Esplorazione e ricerca scientifica in ambienti estremi: prospettive e tecnologie per la valorizzazione delle cavità ipogeniche della Sicilia».
Da Catania allo spazio è un bel salto, quando e come è scattata le molla? Da piccolo volevi fare l’astronauta?
«Non una molla, ma un percorso graduale, iniziato con un sogno, sviluppato con un progetto. Il sogno ho cominciato a cullarlo tra gli anni ’70 e ’80, guardando le prime missioni dello Space Shuttle, e posso dire con certezza che uno dei miei ricordi più lontani è legato proprio a ciò che faccio adesso. Avevo poco meno di quattro anni, ero in piscina, nella mia città, per iniziare il mio primo corso di nuoto. L’istruttrice, per rompere il ghiaccio, chiese a tutti i bambini cosa avrebbero voluto fare da grandi e io risposi: l’astronauta. Ma quella era solo la fantasia di un bimbo. Crescendo, ho compreso che il volo era qualcosa che mi interessava in tutte le sue forme. La vera svolta fu intorno ai 17 anni, in California, dove mi trovavo grazie a una borsa di studio. Il padre della famiglia statunitense che mi ospitava era un navigatore di caccia F-18, un uomo che mi impressionò per la sua fortissima personalità. Lì ho capito che avrei potuto seguire una strada simile, e senza mai accantonare il sogno di diventare astronauta, ho focalizzato il mio progetto: prima sono entrato in Accademia Aeronautica, sono diventato pilota militare, poi pilota sperimentatore, e da lì è arrivato l’approdo all’Esa attraverso un concorso. Così il cerchio si è chiuso: ho ritrovato il sogno, realizzandolo».
Durante la missione «Volare» hai trascorso 166 giorni a bordo dell’Iss. Famiglia e amici a parte, cosa ti è mancato di più della Terra?
«In realtà nulla. Quando parti per una missione come quella sai già cosa ti aspetta, sai che starai lontano per mesi, che non potrai godere delle comodità e dei piaceri terrestri, a cominciare dal cibo. È una scelta che hai fatto, pertanto ne accetti le conseguenze. Per gli affetti, invece, il discorso cambia. Quelli mancano, eccome. Soprattutto il contatto umano, lo scambio, l’interazione con gli amici e con la famiglia, con mia moglie e le mie due figlie piccole».
Sei stato il primo italiano a compiere una passeggiata fuori dall’Iss: 9 luglio 2013, 6 ore e 7 minuti. Nello spazio sono un’eternità, o no? Come hai vissuto quell’esperienza? Con quali emozioni?
«Per me non è stata un’eternità, ma l’opposto. È come se tutto fosse successo in un istante: il tempo sembrava passare così velocemente da confondere il confine tra realtà e sogno, e ancora oggi, quando ripenso a quel giorno, mi sembra di rivedere un film vissuto da qualcun altro. Questa percezione della durata, probabilmente, è dovuta al fatto che sei talmente concentrato che non ti accorgi del passere dei minuti. Quanto alle emozioni, è difficile spiegare, anche perché l’attività extraveicolare è un’esperienza unica, vissuta in un luogo che non ha paragoni sulla Terra, molto diverso anche dalla Stazione spaziale, dove c’è comunque un atmosfera simile a quella terrestre. Attraverso i due centimetri di plexiglas del mio casco ho visto lo spettacolo dell’Universo, le sfumature dell’alba orbitale, ma soprattutto la bellezza indescrivibile del nostro pianeta. E sullo sfondo, ad accompagnare tutte queste sensazioni che affollavano la mente, c’era una consapevolezza: stavo realizzando il mio sogno».
Durante la seconda attività extraveicolare, il 16 luglio, per un guasto tecnico alla tuta spaziale l’acqua del sistema di raffreddamento si è riversata all’interno del casco: hai rischiato di morire, ma con grande calma sei riuscito a rientrare nella Stazione. Dopo hai mai pensato, anche solo per un secondo, di non voler mai più passeggiare nello spazio?
«Mai. E il giorno dopo ero già pronto a uscir fuori per finire il mio lavoro. Se scegli di fare il pilota o l’astronauta, devi sempre mettere in conto i rischi del mestiere, che sono certo minimizzati e ben calcolati, ma ci sono. Fa parte del nostro lavoro rispondere con prontezza alle situazioni d’emergenza, a quelle previste ma anche alle impreviste. In quest’ultimo caso, è necessario affidarsi al proprio bagaglio professionale e utilizzare tutti gli strumenti che si hanno a disposizione per risolvere il problema, escogitando sul momento procedure che non erano mai state sperimentate prima. L’episodio del casco rientra in questa casistica. È l’incidente che non ti aspetti, ma che non puoi neanche escludere a priori, perché la tuta spaziale funziona con un sistema assai complesso. Col senno del poi, si può anche dire sia stata un’esperienza positiva, perché ha determinato un’evoluzione del volo spaziale umano, dato che la tuta è stata poi perfezionata e quel tipo di avaria non accadrà più».
Ma come hai fatto a non entrare nel panico? Tra l’altro non è stato l’unico episodio della tua carriera in cui hai dimostrato sangue freddo: nel 2005 hai avuto un incidente durante un volo con un caccia, ma sei riuscito ad atterrare meritandoti una medaglia.
«In quei momenti fuori dall’Iss, ho messo a frutto tutte le ore passate ad addestrarmi sott’acqua, in piscina, indossando una tuta simile a quella spaziale, in condizioni che riproducono l’esperienza extraveicolare. Un allenamento che ti permette di abbassare il livello di stress nelle situazioni d’emergenza. L’incidente del 2005 è un'altra storia, che dimostra però come l’addestramento e la gestione dell’ansia siano fondamentali nel mestiere di pilota o astronauta. Durante una esercitazione in Belgio, sorvolando la Manica a bordo di un caccia AM-X, ho impattato con un volatile di grosse dimensioni riportando la rottura dell’abitacolo. Le condizioni di scarsissima visibilità, dovute alla totale cristallizzazione del blindovetro, avrebbero giustificato la procedura di eiezione, ma ormai puntavo verso la Francia, e se avessi abbandonato l’aereo in quel momento, avrei potuto provocare gravi danni a terra. Così, visto che il velivolo era ancora controllabile, ho preferito continuare, utilizzando tutta la mia esperienza per atterrare sulla base designata».
Prima e dopo lo spazio, durate il tuo lungo percorso professionale, hai girato la Terra e continui a farlo anche oggi. Ma ti manca l’Isola? Torni ogni tanto a Catania?
«Puoi togliere un siciliano dalla Sicilia, ma non la Sicilia a un siciliano. È un legame speciale, fortissimo, indissolubile, forse proprio perché siamo isolani. Dovunque mi trovo nel mondo ho sempre in testa il mio mare, e anche adesso avrei bisogno di vedere quei colori, di sentire sulla pelle la salsedine, di ascoltare il rumore delle onde. Non ne posso fare a meno, e appena trovo un po’ di tempo torno sempre volentieri. Poi in Sicilia c’è l’altro pezzo della mia famiglia, i miei genitori, mio fratello, e ho tanti amici. Penso sia importante anche per le mie figlie: vorrei che assorbissero quanto più è possibile il retaggio culturale della nostra terra».
Guardiamo al futuro: quale e quando sarà la prossima missione spaziale? E tra i sogni, ci sono anche la Luna e Marte?
«La prossima missione potrebbe essere ancora sull’Iss, tra due anni. Uso il condizionale perché il programma del 2019 è ancora in fase di definizione. Al momento mi sto addestrando ufficialmente per la spedizione che partirà alla fine del 2018, ma con l’equipaggio secondario, di backup. Quanto alla Luna, è stato da sempre il mio sogno, e se un giorno comincerà ad avvicinarsi alla sfera della realtà, allora diventerà progetto. Come astronauta ho ancora davanti a me 20 anni di operatività, dunque si può fare. Per Marte, invece, la vedo dura, perché vent’anni possono non bastare. Se così sarà, mi terrò quest’altro sogno nel cassetto, insieme a tutti quelli irrealizzabili, ma non per questo meno preziosi».
Quali oggetti personali porterai con te quando lascerai nuovamente la Terra?
«Non possiamo trasportare molto: circa un chilo e mezzo di materiale, e poco voluminoso. Nella missione “Volare” ho portato alcuni piccoli regali per familiari e amici, la fede nuziale (che è sempre con me) e tante foto, delle mie figlie e di mia moglie Kathy, una donna straordinaria, senza la quale non sarei arrivato da nessuna parte».
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