ROMA. C'è stato "un vero e proprio comportamento omofobico" oltre che "intollerabilmente reiterato" da parte della pubblica amministrazione nella vicenda della patente sospesa a un giovane che si era dichiarato gay alla visita di leva. Per questo la Cassazione ha disposto che il ragazzo discriminato riceva un congruo risarcimento. A giudizio della Terza sezione civile della Cassazione - sentenza 1126 - sono troppo pochi i 20 mila euro cui il ministero dei Trasporti e quello della Difesa sono stati condannati dalla Corte d'appello di Catania nel 2010. Per questo gli 'ermellini' hanno disposto il rinvio del caso, per riquantificare al rialzo il risarcimento, del giovane siciliano che aveva chiamato in causa le due amministrazioni per violazione della privacy e discriminazione sessuale.
Nel 2001 il giovane, D. M. G. all'epoca ventenne, si era sottoposto alla visita medica di leva all'ospedale militare di Augusta, e lì aveva dichiarato di essere omosessuale. Era stato esonerato dal servizio e qualche mese dopo la Motorizzazione civile di Catania gli aveva notificato il provvedimento di revisione della patente di guida, richiedendo una nuova visita medica di idoneità. Il provvedimento era stato disposto per effetto della comunicazione dell'ospedale militare per verificare l'esistenza dei requisiti psico-fisici alla guida.
Il ragazzo si rivolse quindi al tribunale chiedendo un risarcimento di mezzo milione di euro. Il giudice di primo grado aveva accolto l'istanza, disponendo però un risarcimento più basso, di 100mila euro. Con l'appello dei due ministeri, la corte catanese aveva ancor più ridotto la cifra abbassandola a 20mila euro, ritenendo "esorbitante" la somma riconosciutagli in primo grado, dato che la discriminazione sessuale e la concorrente violazione della privacy - ad avviso dei magistrati di secondo grado - "si erano risolte unicamente nell'apertura delle procedura di revisione della patente", e l'illegittima violazione sarebbe "rimasta circoscritta ad ambito assai ristretto". Per questo "non vi era stato pubblico ludibrio" e la vicenda era rimasta "riservata".
Il caso ebbe rilievo sulla stampa, dopo che lo stesso giovane lo aveva denunciato mostrando tra l'altro il certificato con la diagnosi, "disturbo dell'identità sessuale", in base al quale era stata avviata la pratica.
Nel riaprire il caso affinché la vittima ottenga un equo risarcimento e non una 'miseria' rispetto a quanto patito, la Cassazione bacchetta la decisione d'appello. "Nonostante il malaccorto tentativo della Corte territoriale di edulcorare la gravità del fatto, riconducendola ad aspetti endo-amministrativi", è innegabile - scrive la Suprema Corte - che "la parte lese sia stata vittima di un vero e proprio (oltre che reiterato) comportamento di omofobia". E' quindi certa "la gravità dell'offesa", fatto rilevante per la quantificazione del danno.
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