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Catania, il professore Cariola: "Le interdittive antimafia le deve emettere solo il giudice"

Agatino Cariola

"Le interdittive antimafia non deve emetterle il prefetto, ma solo il giudice". A contestare questo potere prefettizio è Agatino Cariola, professore ordinario di diritto costituzionale dell’Università di Catania, che perentorio afferma: "Il necessario contrasto alle mafie non può farci regredire a livelli incompatibili con lo Stato di diritto". Sulla questione, abbiamo intervistato il costituzionalista.

Professore, secondo lei chi mette in discussione l’attuale disciplina "è quasi costretto ad una sorta di excusatio per non incorrere subito nell’accusa di essere complice di interessi malavitosi". Detta così sembra un autodafé.

"Il problema esiste. La lotta alla mafia - o alle mafie - è un impegno di tutti. Inizia dall’educazione familiare, dall’insegnare ai ragazzi che non si scende a compromessi con chi spaccia (tipica attività della delinquenza organizzata); e continua con l’impegno che si richiede agli imprenditori seri di non accogliere nel proprio ambito soggetti non affidabili. L’attività economica mafiosa pone a rischio la democrazia economica, basata sulla concorrenza, e quella politica. È fondamentale che la lotta alle mafie passi dal piano prettamente penale a quello economico. Il nostro ordinamento conosce le misure di prevenzione patrimoniale, adottate dal giudice penale con le garanzie del processo, e che conducono alla confisca delle imprese. A tali misure sono state aggiunte le cosiddette interdittive, adottate dal prefetto e che importano l’impossibilità per l’impresa di avere rapporti con pubbliche amministrazioni, di partecipare a gare d’appalto, di ricevere sovvenzioni e contributi. Nel 2014, inoltre, è stato introdotto il potere del prefetto di commissariare l’impresa impegnata in un servizio o nella realizzazione di un’opera pubblica. I relativi procedimenti di regola non vedono la partecipazione del soggetto interessato. Le conseguenti decisioni, in quanto atti amministrativi sono sindacati dal giudice amministrativo. Quest’ultimo, a sua volta, davanti a decisioni motivate da interessi tanto pressanti, non riesce ad esercitare un controllo effettivo. Nel processo penale per adottare misure di prevenzione si richiedono prove; nelle vicende amministrative basta la mera probabilità dell’infiltrazione".

Entriamo nel vivo della questione. Secondo lei perché l’interdittiva prefettizia viola la Costituzione?

"La Costituzione richiede che i provvedimenti limitativi della libertà personale siano adottati dal giudice. La perdita della possibilità di partecipare a gare d’appalto e di contrattare con una pubblica amministrazione è un profilo della libertà personale. Dal 1982, da quando è stato introdotto il tribunale della libertà, è unitaria la disciplina sulle misure limitative della libertà personale (l’arresto) e della sfera patrimoniale (il sequestro di beni). L’assegnazione al prefetto di poteri pressoché equivalenti a quelli dell’autorità giudiziaria contrasta con il modello costituzionale. La Corte costituzionale si è occupata del tema in una sentenza dell’anno scorso: ha fatto riferimento alla temporaneità della misura, ha insistito sul fatto che la giurisprudenza amministrativa avrebbe contribuito a specificare le ipotesi in cui si ricorrere alle interdittive e che il giudice amministrativo eserciterebbe un controllo penetrante. Ma ciò significa riconoscere che la legge non è affatto così specifica. Penso che la Corte abbia in realtà voluto invitare i giudici a svolgere un sindacato più intenso".

Interdittiva antimafia simile a un provvedimento penale, quindi, ma emanato da un’autorità amministrativa (il prefetto), perciò sindacabile da giudici amministrativi. Fatto penale, procedimento amministrativo. Sembra un cortocircuito.

"Aggiungo una notazione: quello amministrativo è un giudice “generalista”, che si occupa al tempo stesso di tutte le vicende amministrative. Da tempo il giudice penale è specializzato. Rocco Chinnici nel 1980 ha istituito il pool antimafia per occuparsi delle criminalità mafiosa. Antonino Caponnetto ha sviluppato il modello, poi confluito nell’esperienza della Direzione Nazionale Antimafia e di quelle distrettuali. In ambito amministrativo tutto ciò non è previsto: il prefetto ha competenza generale, secondo la tradizione che ne fa il rappresentante del Governo nei territori; per il giudice amministrativo ne è derivata una competenza estranea alla sua cultura".

Quali sarebbero i vantaggi della sua proposta, che incardina la competenza sull’interdittiva antimafia nel tribunale penale anziché nella prefettura?

"Ne va della credibilità della lotta contro le mafie, che va condotta nelle regole di diritto. Il modello discende dalla Costituzione: la decisione circa la singola impresa “contaminata” deve essere assunta da un giudice. Ricordo la lotta contro il terrorismo negli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo. Anche allora si discuteva se rinnegare i presupposti dello Stato di diritto, ma l’intera società italiana seppe reagire mantenendo un ordinamento liberale. Il necessario contrasto alle mafie non può farci regredire a livelli incompatibili con lo Stato di diritto".

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