Se in Sicilia si verificarono solo sporadici episodi riconducibili lato sensu alla Resistenza, non mancarono gli antifascisti (Peppe Schiera con i suoi versi irriverenti verso il regime tra gli altri) e molti emigrati nel Nord furono protagonisti e vittime della lotta partigiana. Ma, a parte ciò, quanto convinta fu, nei siciliani, l’adesione al fascismo? Poca, a leggere ciò che scrive Alfio Caruso in «Arrivano i nostri» (Longanesi, 2004): «A differenza delle altre regioni, dall’isola giunge al duce un modesto consenso, frutto spesso di opportunismo piuttosto che di reale convincimento». E come testimoniano le cronache farsesche di un paese mai nato, Mussolinia.
Un anno dopo la marcia su Roma Benito Mussolini, in preda alla delirante vanità comune ai dittatori, decide di realizzare un borgo che porta il suo nome. Chissà per quale (insensato) calcolo, e su proposta dell’avvocato Benedetto Fragapane – regio commissario di Caltagirone – caldeggiata dal capo di gabinetto agli Affari Esteri Giacomo Barone, anche lui calatino - più noto come Paulucci di Calboli Barone per avere assunto cognome e titoli della moglie nobildonna forlinese -, sceglie la Sicilia, e precisamente il territorio boschivo di Santo Pietro a pochi passi dalla cittadina di don Luigi Sturzo. In quel fazzoletto di terra, all’indomani del primo conflitto mondiale teatro di rivendicazioni contadine, si stabilisce di costituire una città giardino emblema del fascismo, come da delibera d’urgenza del comune di Caltagirone datata 7 novembre 1923. Il progetto è affidato all’architetto Saverio Fragapane, allievo di Ernesto Basile e lontano parente del regio commissario. Il telegramma speditogli da Roma è più che eloquente: «Prego fare progetto completo e romanamente grande – spesa illimitata». Il progetto, redatto dall’architetto Fragapane, prevede un insediamento urbano di 400.000 metri quadri per un migliaio di famiglie, al centro una piazza circolare (Piazza XXX Ottobre) con un porticato e 16 torri a cupola da cui si dipartono a raggiera sette strade. La toponomastica e il nome dei monumenti sono ispirati al duce e ai suoi congiunti: vi spiccano piazza Rachele, corso Edda e la chiesa dedicata a san Benito.
Nel tardo pomeriggio del 23 maggio 1924 Mussolini giunge, via treno, a Caltagirone. È accolto alla Casa del Fascio con tutti gli onori che la solenne circostanza impone, è nominato cittadino onorario, improvvisa un breve discorso, visita una mostra di ceramica. Di sera la cena con torta tricolore e cassata siciliana. Ma è durante la cena, con lo smarrimento della bombetta da qualcuno rubata come prezioso cimelio, che hanno inizio quegli «incidenti che nella qualità e nel ritmo fanno pensare alle comiche finali di allora» raccontati con divertimento da Leonardo Sciascia in una nota raccolta ne «La corda pazza» (Einaudi, 1970) e da Andrea Camilleri nel romanzo «Privo di titolo» (Sellerio, 2005). L’indomani il duce, con il capo coperto da una coppola d’occasione in sostituzione della bombetta, si reca nel luogo dove deve sorgere Mussolinia per la posa della prima pietra. Ma quando gli è consegnato il tubo metallico contenente la pergamena da firmare e da murare, s’accorge, con imbarazzante sorpresa, che è vuoto. Dov’è finita la pergamena? Tutti la cercano affannosamente e nessuno la trova. Mussolini, irritato, strappa un foglio dal primo registro che gli passa tra le mani e vi scrive veloce: «Qui a Mussolinia sorge la Casa del Fascio, solida e quadrata come la fede e la tenacia degli Italiani. Nell’anno II dell’Era Fascista. Mussolini», infila rapidamente il foglio nella pietra e, subito dopo, riparte per Ragusa. La disavventura ha per colonna sonora la salva di fischi di una folta delegazione di caprai che contesta al governo l’avere sospeso i lavori della linea ferroviaria Gela-Caltagirone. Tutto ciò però non è consegnato alla cronaca dal periodico locale «Il messaggero siciliano», nel quale si legge: «La nuova città-giardino apparve al Presidente ed al numeroso seguito tutta inondata di sole tricolore». In realtà, delle sedici torri del progetto solo due sono state erette e la piazza centrale ha poco di urbano e molto di campestre popolata com’è di ulivi e querce.
Mussolini ha a cuore il borgo che porta il suo nome e chiede notizie sull’avanzamento dei lavori. Dalla Sicilia gli pervengono informazioni rassicuranti acclarate da immagini di edifici e villette difformi al progetto ma accattivanti. Ancora più accattivante – e rivelatore della beffa – è il fotomontaggio in cui gli edifici e le villette si affacciano al mare col commento che Caltagirone adesso, oltre alla città giardino, ha pure il mare. A quel punto il duce comprende di essere stato vittima di una colossale burla e nomina, per far luce sull’accaduto, una commissione d’inchiesta con a capo l’avvocato Alfredo De Marsico. L’inchiesta si chiude con l’espulsione dal partito fascista di Fragapane, destituito dalla carica di regio commissario e costretto alle dimissioni da deputato. Salta la sua testa dunque, ed è forse solo un capro espiatorio su cui addossare le responsabilità di tanti altri – coinvolti nelle faide locali tra gerarchi - perché un colpevole deve sempre trovarsi, come lascia intendere Sciascia nel suo racconto. Se la cava invece Barone e anzi, quando nasce la Repubblica di Salò, Mussolini lo vorrebbe ministro degli Esteri, ma lui preferisce il titolo di ambasciatore del governo Badoglio. Ne fa le spese pure Caltagirone che non diventa capoluogo di provincia (nel 1927 le è preferita Enna) e alla quale è accollato il debito contratto dallo Stato col Banco di Sicilia. Che cosa resta oggi di Mussolinia? Qualche caseggiato tra i boschi di Santo Pietro, la medaglia che la celebra e lo storico fascicolo del 1924 dedicatole dalla Sonzogno che l’incluse nelle «Cento città illustrate».
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