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Le estorsioni, il fallito attentato e il nuovo reggente: così il clan Santapaola imponeva il comando

Nelle prime ore del mattino, su delega della Direzione Distrettuale Antimafia, i carabinieri del comando provinciale di Catania, supportati dai reparti specializzati dell’Arma presenti nella Regione siciliana (Compagnia di Intervento Operativo del XII Reggimento Sicilia, Squadrone Eliportato Cacciatori Sicilia, nonché i Nuclei Elicotteri e Cinofili), hanno dato esecuzione nelle Province di Catania, Prato, L’Aquila, Enna, Perugia, Vibo Valentia, Palermo, Benevento, Siracusa e Avellino, ad un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip del Tribunale di Catania nei confronti di 35 soggetti (di cui 26 in carcere e 9 agli arresti domiciliari), gravemente indiziati, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione illegale di armi e munizioni e trasferimento fraudolento di beni, aggravati dal metodo mafioso.

L'ascesa del nuovo reggente

L’indagine, coordinata da questa Direzione Distrettuale Antimafia e condotta dai militari del nucleo investigativo dal settembre 2018 al dicembre 2020, attraverso attività tecniche e sul territorio, ulteriormente riscontrate dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e da indagini patrimoniali, ha consentito di monitorare le evoluzioni delle dinamiche associative della famiglia di Cosa Nostra catanese ed in particolare del clan Santapaola-Ercolano, individuandone, allo stato degli atti, l’attuale «responsabile provinciale» in Francesco Tancredi Maria Napoli, nipote di Salvatore Ferrera detto “Cavadduzzo” e legato da vincoli di sangue allo storico capomafia Benedetto “Nitto” Santapaola (atteso che Ferrera Salvatore, era coniugato con una delle sorelle D’Emanuele, zia di Santapaola).
Nell’attuale fase del procedimento, in cui non è stato ancora instaurato il contraddittorio tra le parti, le attività tecniche hanno disvelato come – già in prossimità della scarcerazione del Napoli, avvenuta il 6 settembre 2019, dopo oltre 13 anni continuativi di detenzione – lo stesso sarebbe stato investito della carica di rappresentante di Cosa Nostra catanese da elementi di vertice della «famiglia».

Il ruolo dei pentiti

Tale elemento è stato confermato dalle recenti dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Silvio Corra e Salvatore Scavone. Peraltro, già in precedenza, diversi collaboratori, tra cui Santo La Causa, lo avevano indicato quale uomo d’onore «riservato».
Sempre allo stato degli atti, le investigazioni hanno altresì fatto emergere come Napoli, nella gestione quotidiana delle attività illecite del sodalizio, aveva costantemente adottato delle cautele estreme, volte ad evitare che le sue conversazioni potessero essere ascoltate dalle forze dell’ordine, come l’utilizzo di una rete telefonica riservata, costituita da utenze intestate ad ignari cittadini extracomunitari, frequentemente sostituite.
Parimenti, la trattazione delle varie questioni di interesse del clan sarebbe sempre stata rimandata ad incontri in presenza, fissati senza alcun riferimento specifico al luogo, ma indicati attraverso «nomi in codice», durante i quali avrebbe vietato ai suoi interlocutori di tenere al seguito i cellulari.
In tale contesto, avrebbero altresì rivestito un ruolo di particolare rilievo le figure di Cristian Buffardeci e di Domenico Colombo.

Buffardeci, in qualità di «braccio destro» del Napoli, gli avrebbe consentito di evitare un’esposizione diretta nella gestione degli affari illeciti della «famiglia», in particolare nei contatti con soggetti pregiudicati e nell’organizzazione degli appuntamenti.
Il suo pieno coinvolgimento all’interno dell’associazione mafiosa sarebbe inoltre confermata dalla circostanza che, in diverse occasioni e su incarico di Napoli, avrebbe preso parte in sua vece a delicati incontri con soggetti di vertice di altre organizzazioni criminali.
Per quanto concerne invece Domenico Colombo, sarebbero emersi sia gli stretti legami con personaggi di vertice dell’associazione, tra cui in particolare Vincenzo Sapia , Salvatore Rinaldi Salvatore, Carmelo Renna e Francesco Santapaola, classe ‘79, sia il suo ruolo nella gestione delle attività estorsive e di recupero crediti nei confronti di soggetti che ritardavano nel pagamento dei debiti, raccogliendo, in particolare, le somme destinate alla famiglia di Francesco Santapaola.

L’attività investigativa avrebbe inoltre documentato i «reati fine», strumentali al sostentamento dell’associazione mafiosa, tra i quali si pongono in evidenza le diverse estorsioni ai danni di imprenditori catanesi, un fiorente traffico di cocaina e marijuana, gestito direttamente da Gabriele Santapaola e dai fratelli Giuseppe e Antonino (figli di Santapaola Salvatore inteso «Turi Colluccio»), il recupero crediti attraverso prestiti ad usura e l’acquisizione, diretta o indiretta, della gestione e del controllo di attività economiche.
Per quanto riguarda invece le attività estorsive della «famiglia», le indagini avrebbero documentato 6 estorsioni ai danni di imprenditori dei settori dei servizi per la logistica, delle attività turistico-ricreative e del commercio all’ingrosso e al dettaglio, corroborate anche dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e da soggetti informati sui fatti, che sarebbero state consumate dal sodalizio criminale per fare fronte alla mancanza di fondi per il mantenimento delle famiglie degli affiliati detenuti.

Bottiglia incendiaria contro il lido alla Playa

Al riguardo, circa il «modus operandi» delle richieste estorsive, va sottolineato come le stesse sarebbero state eseguite da soggetti notoriamente inseriti nel sodalizio e quindi immediatamente percepite dalle vittime come provenienti da Cosa Nostra. In un caso la richiesta estorsiva si è manifestata nella collocazione di una bottiglia incendiaria all’esterno di un noto stabilimento balneare in località Playa, accompagnata da un pizzino con la scritta «200 mila euro o ti cerchi l’amico 2 giorni di tempo».

Una delle condotte estorsive è stata invece interrotta in flagranza dai carabinieri, che durante l’attività investigativa, sono riusciti a trarre in arresto un soggetto intraneo alla «famiglia», bloccato appena dopo aver prelevato poco più di mille euro da un imprenditore catanese, il quale, dopo un’iniziale reticenza, ha riferito di essere stato vittima di pressanti richieste già da diverso tempo.

Sequestrati salone auto e un'enoteca alla moda

Tra le risultanze dell’indagine, emergono inoltre con particolare rilevanza i sequestri preventivi delle società «Citymotor s.r.l.», salone multimarca di automobili sito nel Comune di San Gregorio di Catania e «Vinissimo s.r.l.», enoteca con sede a Catania, affidate ad un amministratore giudiziario, unitamente ai conti correnti ad esse intestati e a tutti i beni aziendali registrati, sia mobili che immobili.
In particolare, per quanto concerne la «Citymotor s.r.l.», già emersa nell’indagine «Fiori bianchi», sarebbe emersa l’attribuzione fittizia della società a un prestanome, ma in realtà riconducibile all’indagato Michele Monaco, per eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali e sottrarre il patrimonio societario ad eventuali provvedimenti ablatori reali.
Riguardo invece alla società «Vinissimo s.r.l», dal quadro probatorio raccolto ed in particolare in ragione di alcune conversazioni intercettate, è emerso come la stessa sarebbe stata gestita in maniera occulta da Francesco Napoli e dal cugino Francesco Ferrera. Questi ultimi infatti, dal marzo 2020, avrebbero avviato l’attività commerciale, attribuendone la titolarità ad un prestanome in modo tale che fosse immune da eventuali provvedimenti ablatori.
L’ipotesi investigativa prospettata dalla procura distrettuale è stata condivisa dal Gip che ha emesso le misure cautelari.

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